L’omelia del Patriarca Natale 2021
di Steelee12 | 25 Dicembre 2021 | Omelia
di Steelee12 | 25 Dicembre 2021 | Omelia
(Venezia / Basilica cattedrale di S. Marco, 25 dicembre 2021)
Omelia del Patriarca Francesco Moraglia
S. Messa del giorno di Natale
Carissimi,
possiamo tutti ascoltare il lieto annuncio di salvezza che, ancora una volta, risuona in questo giorno di Natale nel tempo in cui la nostra Chiesa, insieme alle altre, è impegnata nel cammino sinodale.
Il Sinodo, come ci ha ricordato il Santo Padre Francesco, ”non è un’indagine sulle opinioni; il Sinodo è un momento ecclesiale, e il protagonista del Sinodo è lo Spirito Santo” (Papa Francesco, Discorso in occasione del momento di riflessione per l’inizio del percorso sinodale, 9 ottobre 2021). Possiamo, insieme, camminare tutti secondo questo spirito.
La liturgia evidenzia che “un bambino è nato per noi, ci è stato dato un figlio” (Is 9,5). E Gesù, nato bambino, nato quindi come uomo a Betlemme, è il Figlio di Dio che – lo ha proclamato poco fa la lettera agli Ebrei – è “irradiazione della sua gloria e impronta della sua sostanza, e tutto sostiene con la sua parola potente” (Eb 1,3).
La prima lettura – del cosiddetto “Deutero Isaia” – contiene le profezie del tempo dell’esilio a Babilonia, in cui si canta la bellezza e la gioia dell’annuncio di questo giorno e di chi se ne fa portatore: “Come sono belli sui monti i piedi del messaggero che annuncia la pace, del messaggero di buone notizie che annuncia la salvezza, che dice a Sion: «Regna il tuo Dio»” (Is 52,7).
Il prologo del Vangelo di Giovanni ci ha poi condotti al “cuore” dell’evento del Natale che è “luce” che “splende nelle tenebre” (Gv 1,5), “la luce vera, quella che illumina ogni uomo” (Gv 1,9). E nei versetti centrali risuona il contenuto – non da tutti riconosciuto – di salvezza, di questo annuncio di bene: “Venne fra i suoi, e i suoi non lo hanno accolto. A quanti però lo hanno accolto ha dato potere di diventare figli di Dio: a quelli che credono nel suo nome, i quali, non da sangue né da volere di carne né da volere di uomo, ma da Dio sono stati generati. E il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi…” (Gv 1,11-14).
A Natale, Dio entra nel mondo secondo la misura dell’uomo, attraverso la nostra misura umana, non però nel senso che Dio è la proiezione dell’anima umana, dei desideri, delle aspettative e dei bisogni degli uomini. La realtà, piuttosto, è che Dio – a Natale – accondiscende all’uomo, raggiungendolo perfino nella sua carnalità e così Dio dialoga con lui in modo umano, attraverso la carne.
Nelle Scritture, e lo vediamo in particolare nelle lettere paoline, il termine “carne” assume due significati. Nel primo la “carne” è collegata al peccato e, quindi, necessita di salvezza: “…ciò che era impossibile alla Legge, resa impotente a causa della carne, Dio l’ha reso possibile – dice il capitolo ottavo della lettera ai Romani –: mandando il proprio Figlio in una carne simile a quella del peccato e a motivo del peccato, egli ha condannato il peccato nella carne, perché la giustizia della Legge fosse compiuta in noi, che camminiamo non secondo la carne ma secondo lo Spirito” (Rm 8,3-4).
Subito dopo troviamo l’altro senso del termine “carne”, ossia realtà umana che ci accomuna e caratterizza: “Vorrei (…) essere io stesso anàtema, separato da Cristo a vantaggio dei miei fratelli, miei consanguinei secondo la carne. Essi sono Israeliti e hanno l’adozione a figli, la gloria, le alleanze, la legislazione, il culto, le promesse; a loro appartengono i patriarchi e da loro proviene Cristo secondo la carne, egli che è sopra ogni cosa, Dio benedetto nei secoli” (Rm 9,3-5).
L’uomo, lo sappiamo, non è un angelo. Anche nell’atto più spirituale (la preghiera) o nell’atto più intellettuale (l’astrazione filosofica), l’uomo è coinvolto carnalmente; non si dà nella mente ciò che, prima, non era nei sensi.
La stessa preghiera non è un vago pensiero su Dio e, infatti, si prega sempre a partire dalla propria storia, dalla propria vicenda personale; si prega con il corpo, individualmente e con la comunità che, a sua volta, è la risultanza di un incontro che avviene tra singole persone nella corporeità, attraverso e grazie al proprio corpo.
La carne, quindi, non è solo la carne del peccato e non è neppure mera materialità inanimata ma, con lo spirito, è la realtà – questo è il senso della parola “carnalità” – che umanamente ci caratterizza e che entra nella nostra relazionalità, come avviene per Gesù che nasce “secondo la carne” e così entra nella storia attraverso la carne umana.
L’uomo è “altro” rispetto a Dio, ma non è il “totalmente altro”; certo è “altro” rispetto a Dio nella sua vita spirituale (anima) e carnale (corporeità), eppure sia l’anima sia il corpo dell’uomo derivano da Dio.
Sì, lo spirito e la carne provengono da Dio e l’uomo è esattamente questa realtà. Il Natale, così, è risposta all’uomo inteso nella totalità del suo essere. Per questo, a Natale, Dio si fa carne: “…il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi…” (Gv 1, 14). A Natale noi parliamo in termini spirituali e corporei – anima e corpo – in un contesto di unità.
Tertulliano, autore cristiano del III secolo, afferma: “Caro salutis est cardo” (Tertulliano, De carnis resurrectione, 8,3: PL 2,806); la carne diventa il cardine, lo strumento della salvezza. E questo avviene proprio a partire dall’incarnazione che rappresenta il grande elemento che differenzia – nelle tre religioni monoteiste – il Cristianesimo dall’Ebraismo e dall’Islam; non sono l’esistenza di Dio o l’anelito alla salvezza a fare la differenza, ma l’incarnazione.
È proprio, infatti, di tutte le grandi religioni affermare l’esistenza di Dio ed indicare una via di salvezza per l’uomo ma ciò che rende unica la fede cristiana è esattamente il Natale.
Il Natale, poi, è anche “l’approccio” consono per intercettare il sentimento profondo delle persone e delle comunità, in particolare quando si vive ancora un tempo di sofferenza e di fatica che pensavamo fosse destinato solo ai libri di storia. La pandemia ci ha svegliati pure da tale illusione.
A Natale entra in scena lo stupore. C’è una singolare statuina che, in alcune tradizioni, viene posta nel presepio di fronte alla capanna di Gesù, il Salvatore: è il “pastore della meraviglia”, un pastore con gli occhi spalancati e le braccia allargate, che non porta nulla con sé, né i frutti del campo né un agnello, nemmeno un indumento per scaldare il bambino che è nato… Niente, lui porta solo il suo stupore con lo sguardo fisso alla capanna; è la statuina che dice bene cos’è il Natale.
Nello stesso tempo, sempre a Natale, facciamo l’esperienza della presenza del peccato che abbonda e sembra crescere sempre più nel mondo. È la stessa liturgia del 26 e 28 dicembre ad evidenziarlo, proponendoci il martirio di S. Stefano (protomartire) e dei santi bambini innocenti.
Sì, pecchiamo sempre più e ciò che preoccupa maggiormente in certi periodi storici – e il nostro, forse, è uno di questi – è che una volta si aveva il senso del peccato – ossia si peccava sapendo di peccare – ma ora non è più così. Se si perde il senso del peccato, quando si arriva a negare l’esistenza di Dio e quindi a non considerare più il male morale dell’uomo, le conseguenze sono tragiche.
L’ha descritto bene lo scrittore russo Fëdor Dostoevskij – di cui si è appena ricordato il 200esimo della nascita – soprattutto in testi come “Delitto e castigo” e “I fratelli Karamazov”.
Talora si punta non solo ad escludere Dio dalla vita sociale ma anche dal pensiero stesso dell’uomo, quasi a voler certificare e confermare quel “Dio è morto” del filosofo tedesco Friedrich Nietzsche.
Di fronte al male che cresce e alle molte sofferenze patite anche oggi dall’umanità, noi diciamo che tutto questo non è l’esito di un castigo o di un capriccio di Dio ma è il frutto del peccato e della negazione di Dio.
Dio non è mai autore e fautore di morte – Lui che “ha creato l’uomo per l’incorruttibilità, lo ha fatto immagine della propria natura. Ma per l’invidia del diavolo la morte è entrata nel mondo e ne fanno esperienza coloro che le appartengono” (Sap 2,23-24), afferma il libro della Sapienza – e i mali nel mondo sono piuttosto la conseguenza di un allontanamento da Dio e dell’aver costruito un‘umanità a prescindere o in opposizione, aperta o nascosta, al progetto di Dio e alla creazione disegnata e voluta da Lui.
La rivelazione cristiana è chiara: quando ci si allontana da Dio – autore della vita – e ci si ribella, allora si costruisce l’uomo e la città dell’uomo contro e senza Dio; il mondo e l’uomo precipitano nel vuoto (cfr. cap. 3 della Genesi / il peccato d’origine).
L’insegnamento che ci viene dalla storia della salvezza e oggi dal Natale ci conduce a dire che Dio ha creato l’uomo come “realtà buona”, anzi “molto buona” (Gen 1,31). E Dio, compiuto il gesto creatore, si è per così dire “ritirato” dal mondo e ha fatto un passo indietro, affidando tutto all’uomo perché l’uomo – sua immagine – ne fosse il custode e colui che avrebbe dovuto far crescere il mondo.
In qualche modo, dunque, il buon andamento, la salvezza e la morte del mondo dipendono dall’uomo e allora – nel Natale – Dio si fa uomo perché solo attraverso l’uomo, a cui aveva consegnato il mondo, può trovare compimento l’opera della sua creazione e il mondo potrà esser salvato.
Riemerge qui l’intreccio perenne tra libertà e responsabilità dell’uomo, chiamato per vocazione a custodire e far crescere il mondo che quindi, attraverso l’uomo, può precipitare nell’abisso della morte oppure può essere salvato e ricondotto a Dio.
Ne “Il mistero dei santi innocenti”, scritto da Charles Péguy nel 1912, è Dio Padre che parla e ricorda la preghiera a Lui più gradita, quella che Gesù – il Verbo incarnato – ha insegnato e voluto lasciare ai suoi discepoli.
Il testo recita: “Padre nostro che sei nei cieli. Naturalmente – è Dio a parlare – quando un uomo comincia a questo modo può continuare a parlarmi come vuole. Voi vedete pure, sono disarmato. Mio Figlio lo sapeva bene… Mio figlio che li ha tanto amati, che li ama eternamente nel cielo. Ha ben saputo quel che faceva quel giorno, mio figlio che li ama tanto. Quando ha messo questa barriera fra loro e me. Padre nostro che sei nei cieli, queste tre o quattro parole. Questa barriera che la mia collera e forse la mia giustizia non supereranno mai. Beato chi s’addormenta sotto la protezione dei bastioni di queste tre o quattro parole… Queste tre o quattro parole che mi vincono, me, l’invincibile” (Charles Péguy, “Il mistero dei santi innocenti”).
Facciamo nostra e riscopriamo la bellezza e la forza della preghiera di Gesù, Figlio di Dio e Figlio dell’uomo; il Padre nostro è la preghiera che in questo Natale vogliamo porre al centro della nostra vita, all’inizio e alla conclusione delle nostre giornate e in ogni momento in cui avvertiamo il bisogno di recuperare il rapporto con Dio.
Buon Natale a tutti!